Diogene, il cane di Sinope

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Libertà di parola e di azione. Diritti che, nel tempo che stiamo vivendo, sussistono in astratto per tutti e ciascuno di noi, ma che nella pratica riesce sempre più difficile esercitare. Questo avviene non solo nei Paesi ad esplicita vocazione dittatoriale, ma, in una certa misura, anche in quelli apertamente democratici. Se nei primi la limitazione alle libertà personali è brutale e dichiarata, nei secondi si procede in maniera insidiosa e per sottrazione progressiva, sicché prenderne atto, e conseguentemente opporsi ad essa, risulta particolarmente arduo. Il fenomeno è condensato nella nota metafora della rana bollita. Se metti una rana in una pentola di acqua bollente, salterà subito fuori; ma se alzi lentamente la temperatura la rana rimarrà dentro, all’inizio incapace di percepire cosa sta accadendo, in seguito troppo debole per reagire e scappare, finché non morirà.

Rispetto agli anfibi la nostra situazione di esseri umani è ulteriormente complicata dalla presenza di due attori, i media e i social media, che decantano le virtù della pentola, dove tutti dovremmo immergerci “per il nostro bene e per il bene comune”. Si alimenta così la fabbrica del consenso nella quale ogni voce dissonante dal paradigma dominante diventa, ea ipsa, antidemocratica. Ci ritroviamo insomma nella situazione preconizzata da Aldous Huxley ne “Il mondo nuovo”, romanzo distopico del 1932 che molti citano ma quasi nessuno ha letto, il cui contenuto è solitamente così sintetizzato: la dittatura perfetta avrà sembianza di democrazia, una prigione senza muri dalla quale i prigionieri non sogneranno mai di fuggire; un sistema di schiavitù dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitù. Così, tra censure dei comportamenti e delle idee (che spesso diventano autocensure per evitare lo stigma e l’isolamento sociale, se non addirittura la persecuzione giudiziaria) e propagatori di fake news grottescamente incaricati dai giganti del web e dell’editoria di individuare fake news, le vite di tutti si riducono ad altrettanti esercizi di conformismo. Ci vorrebbe uno scatto di orgoglio e di coraggio. Ci vorrebbe un Diogene, che della battaglia contro le convenzioni fece prassi quotidiana due millenni e mezzo fa.

La virtù è nelle azioni

Prima di Diogene, però, c’era Antistene. Discepolo di Gorgia, poi di Socrate, alla morte di quest’ultimo fu tra i filosofi più in vista nell’Atene del IV secolo a.C.. A lungo si è ritenuto che fosse l’iniziatore della scuola cinica, derivando quel nome dal liceo del Cinosarge (cane agile) in cui si tenevano le lezioni. Più di recente si è giunti alla provvisoria conclusione che Antistene non fondò alcuna scuola e che il nome di “cinici”, attribuito agli esponenti di quel movimento filosofico, non si legasse all’edificio del Cinosarge, ma fosse dovuto al loro stile di vita essenziale, da cani appunto; sia in riferimento alla condotta ignara delle convenzioni sociali e priva di comodità da essi praticata, sia per la vigilanza che esercitavano, in primo luogo su se stessi. Il significato assunto oggi dal termine “cinico” (che va a indicare una persona priva di morale e sensibilità, e anche di rispetto e fiducia negli ideali umani e nelle regole della società) non è dunque pienamente sovrapponibile a quello originario.

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JEAN-LÉON GÉRÔME, DIOGENE, OLIO SU TELA, 1860, THE WALTERS ART MUSEUM, BALTIMORA

In ogni caso Antistene tracciò la linea che fu seguita, e anche radicalizzata, da Diogene, ponendo l’attenzione sull’importanza dell’autodominio e dell’autarchia, prerequisiti per raggiungere la totale libertà. Secondo Antistene “la virtù è nelle azioni e non ha bisogno né di moltissime parole né di moltissime cognizioni” (DL, VI, 11). Ci troviamo di fronte a uno sviluppo parziale del socratismo, nel quale l’attenzione alla teoria della conoscenza è minima, anzi assente, e massima è quella alla pratica quotidiana, che si esplica nell’addestramento o esercizio interiore (askesis) attraverso il quale, come un atleta in una palestra, ci si allena alla virtù. Nello scrivere dei cinici, allora, si lascerà spazio soprattutto alla descrizione dei loro comportamenti, che rimandano a una filosofia del concreto, del fare; anticulturale e proprio per questo popolare: una “filosofia del proletariato greco” per usare la definizione data da Göttling e poi rilanciata da Gomperz. Ma anche, come vedremo con Diogene, caratterizzata da eccessi che apparivano tali nel mondo antico e probabilmente farebbero scandalo anche oggi: “Il modo di pensare dei cinici è da rifiutare per intero, poiché è ostile al pudore, senza il quale non sono possibili la rettitudine e l’onestà” (Cicerone, De officiis, I, 148).

Adoxia

Tutto ciò che possedevano i cinici – almeno quelli delle prime generazioni, in seguito la loro rigidità si ammorbidì alquanto – erano un mantello, una bisaccia, un bastone. La felicità, che è l’orizzonte di ogni filosofia antica, consiste nel non aver bisogno di nulla, diceva Antistene, che vedeva nel piacere un intralcio alla virtù e nella atuphia (assenza di illusioni o false opinioni che la società vuole imporre) e nella adoxia (mancanza di gloria e di fama) un bene. Soprattutto quest’ultimo messaggio, nella nostra epoca dominata dalla ricerca spasmodica della visibilità e del pubblico riconoscimento, è di rottura radicale, così come l’esaltazione della fatica (ponos), incarnata dalla figure di Eracle, oggi relegata a disvalore nell’ottica di un successo ottenuto senza sforzo.

Ai cinici non mancava il gusto della battuta, che poi a ben vedere è solo un parlar chiaro. La maggior parte dell’aneddotica che li riguarda ci è stata tramandata da Diogene Laerzio, autore dei dieci libri delle Vite e dottrine dei filosofi illustri, 82 brevi biografie che vanno da Talete a Epicuro (tutte le citazioni tratte dalle Vite le indichiamo per brevità con l’acronimo DL). A chi gli chiedeva perché riprendesse aspramente i suoi discepoli, Antistene rispondeva: “Anche i medici gli infermi” (DL, VI, 4). A chi invece lo rimproverava perché non evitava di parlare con i malvagi, replicava: “Anche i medici stanno in compagnia dei malati, ma non hanno la febbre” (DL, VI, 6). A uno che gli disse “molti ti lodano”, rispose: “Ho fatto forse qualcosa di male?” (DL, VI, 8). Richiesto di quale frutto avesse tratto dalla filosofia, affermò: “Il poter conversare con me stesso” (DL, VI, 6). A un sacerdote che gli diceva che nell’aldilà gli iniziati partecipavano di molte cose, ribatté: “Perché dunque non muori?” (DL, VI, 4). L’intero libro VI delle Vite è dedicato ai cinici: tra essi figura anche Ipparchia, fra le prime donne filosofe di cui conosciamo il nome e alcuni cenni biografici, nonché moglie di Cratete, a sua volta discepolo di Diogene. Quest’ultimo è considerato il più cinico fra i cinici, il cane per antonomasia. Aristotele lo indica direttamente come “cane”, tacendone il nome: “Il cane diceva che le osterie sono le mense dell’Attica” (Retorica, III, 10, 1411 a 25).

Parresia

Diogene nacque, forse nel 413 a.C., a Sinope, nell’attuale Turchia; il padre Icesio fu accusato di aver falsificato la valuta e a causa di ciò tutta la famiglia fu esiliata. Secondo un’altra versione a battere moneta falsa fu lo stesso Diogene, che si trasferì quindi ad Atene e poi a Corinto dove, stando a quanto affermato da Demetrio di Magnesia negli Omonimi, si spense nel 323 a.C., lo stesso giorno in cui a Babilonia morì Alessandro Magno. Nessuno dei suoi scritti ci è pervenuto, in compenso su di lui abbondano racconti e testimonianze, anche se non di prima mano. Una volta giunto ad Atene prese a seguire Antistene, nonostante questo non volesse allievi. “Alle sue insistenze, Antistene lo minacciò con il bastone e addirittura lo colpì sulla testa. Diogene non accennò a desistere e anzi tornò alla carica con maggiore insistenza mostrando il più grande desiderio di ascoltare il maestro, al quale disse: “Colpiscimi pure, se vuoi, ecco la mia testa: non troverai un bastone abbastanza duro da farmi rinunciare ad ascoltarti”. A quel punto Antistene lo accolse di buon grado come allievo” (Claudio Eliano, Varia historia, X, 16). Come il suo maestro, condusse una vita priva di mete (indicate dalla società) e anche di dimora, tanto è vero che scelse di vivere in una botte. Il nostro filosofo era autarchico (bastava a se stesso in tutto) e apatico (indifferente a ogni cosa). Sua stella polare fu la parresia (libertà assoluta di parola) che esercitò in ogni circostanza. Lo stoico Dionisio racconta che dopo la battaglia di Cheronea (338 a.C.) Diogene fu catturato e condotto davanti a Filippo di Macedonia. “A Filippo, che gli chiese chi fosse, replicò: “Osservatore della tua insaziabile avidità”. Per questa battuta riscosse la sua ammirazione e fu rimesso in libertà” (DL, VI, 43).

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PIERRE PUGET, INCONTRO DI ALESSANDRO E DIOGENE, ALTORILIEVO, 1671/1689, MUSEO DEL LOUVRE, PARIGI

Ancor più celebre è il presunto incontro con Alessandro Magno, l’uomo più potente del mondo allora conosciuto, di cui troviamo traccia in molti scrittori antichi e che nei secoli ha continuato a ispirare letterati e artisti (si veda, a solo titolo di esempio, l’altorilievo di Pierre Puget esposto al Louvre di Parigi). “Mentre Diogene prendeva il sole nel Craneo, gli disse, sopraggiunto, Alessandro: “Chiedimi ciò che vuoi”. E Diogene rispose: “Non farmi ombra”” (DL, VI, 38). Plutarco aggiunge, nella sua biografia di Alessandro Magno della serie Vite parallele, che il grande conquistatore, come già il padre Filippo, fu assai colpito dal coraggio e dalla sfrontatezza di Diogene, tanto da commentare: “In verità, se io non fossi Alessandro, sarei Diogene” (Plutarco, Vita di Alessandro, 14). Oggi, invece, ci ritroviamo i giornalisti, autodefinitisi cani da guardia (quale inconsapevole umorismo), che come un sol uomo si alzano in piedi per applaudire il potente di turno quando entra in sala stampa. Ma abbandoniamo le miserie del presente e torniamo al nostro filosofo.

Anaideia

Oltre alla parresia, Diogene praticava l’anaideia (totale libertà di azione). Filodemo di Gadara fornisce nella sua Rassegna dei filosofi conservata fra i papiri di Ercolano parzialmente scampati all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., un quadro dei comportamenti dei cinici a dir poco sconcertante, anche se per molti aspetti assai moderno: “Questi individui esecrabili ritengono di adeguarsi al modo di vivere dei cani, di fare ricorso apertamente a tutte le parole senza ritegno, di masturbarsi in pubblico, di indossare la doppia tunica, di abusare degli uomini di cui si sono invaghiti costringendo con la forza quelli che non sono disposti a cedere. (…) Presso di loro i figli appartengono a tutti (…) si accoppiano con le sorelle o la madre, con i familiari, i fratelli e i figli. (…) Le donne si vestono allo stesso modo degli uomini e svolgono le stesse attività senza distinguersi da nessun punto di vista”.

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JULES BASTIEN-LEPAGE, DIOGENE, OLIO SU TELA, 1877, MUSEO MARMOTTAN MONET, PARIGI

Sebbene la ricostruzione fornita da Filodemo appaia sopra le righe nelle sezioni in cui si fa riferimento alla violenza, del resto troviamo sostanziale conferma nel VI libro delle Vite: Diogene “ammetteva la comunanza delle donne e non riconosceva il matrimonio, ma la convivenza concordata tra uomo e donna. Perciò anche i figli dovevano essere comuni” (DL, VI, 72); “Era solito masturbarsi in luogo pubblico” (DL, VI, 69). Inoltre “non trovava affatto strano rubare qualcosa da un tempio o toccare la carne di qualsiasi animale, né riteneva un’empietà mangiare carne umana, come era chiaro che facevano alcuni popoli stranieri” (DL, VI, 73). Non è quindi un caso se nella Repubblica romana, caratterizzata da una spiccata severità morale, almeno nelle intenzioni della classe dirigente o di una sua parte, il cinismo ebbe un successo relativo. Continuò però a vivere nello stoicismo (che dai cinici ereditarono l’indifferenza nei confronti dei beni esteriori, del superfluo, e la contemporanea esaltazione dell’autarchia e dell’apatia) godendo poi di una riscoperta in epoca imperiale, quando nuovamente il cinismo, depurato dagli eccessi sopra descritti, funse da modello di vita per ampi settori della classe popolare. Lo stesso Seneca, filosofo stoico sempre pronto a illustrare e anche far proprie le dottrine di altre scuole, in Sui benefici non lesina lodi ad esponenti del cinismo, in particolare a Diogene e al proprio contemporaneo (I secolo d.C.) Demetrio.

Un Socrate impazzito

L’anaideia di Diogene si manifestava in diversi eccentrici modi. “Durante un convito alcuni gli gettarono le ossa come a un cane. Diogene andandosene ci orinò sopra, come un cane” (DL, VI, 46). “Un tale lo introdusse in una casa magnifica proibendogli sputare. Dopo che si fu schiarito la voce, Diogene gli sputò in faccia, dicendo che non aveva trovato luogo peggiore per farlo” (DL, VI, 32). “Una volta, a teatro, si mise a cercare di entrare dall’uscita, camminando in direzione opposta a chi veniva fuori, e quando gli fu chiesto il motivo disse: “È quel che cerco di fare da tutta la vita” (DL, VI, 64). Fra i suoi bersagli preferiti, come già fu per Antistene, c’era Platone, la cui teoria delle idee (l’esistenza di un modo soprasensibile “abitato” da forme immateriali ed eterne che fungono da modelli per tutte le cose sensibili) era respinta recisamente, né poteva essere altrimenti per una filosofia sostanzialmente materialistica come quella cinica, che dava credito solo a ciò che possiamo percepire con i sensi abituali. “Una volta che Platone disquisiva sulle idee ricorrendo ai termini “tavolità” e “coppità” (idea di tavolo e idea di coppa) invece di parlare di “tavola” e “coppa”, Diogene disse: “Quanto a me, Platone, la tavola e la coppa le vedo, la tavolità e la coppità no”. Al che Platone: “È logico: gli occhi per vedere la coppa e la tavola li hai, l’intelletto per vedere la tavolità e la coppità ti manca” (DL, VI, 53).

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MATTIA PRETI, PLATONE E DIOGENE, OLIO SU TELA, 1649, MUSEI CAPITOLINI, ROMA

Da parte sua, a chi gli chiedeva cosa pensasse di Diogene, Platone rispondeva: “È un Socrate impazzito” (DL, VI, 54), alludendo al fatto che Diogene era dotato di una straordinaria capacità dialettica, che però rimaneva sterile, perché produttrice non di domande e dubbi, come in Socrate, ma di risposte fulminanti fini a se stesse, incapaci di avvicinare o di pungolare alla conoscenza. Epperò l’immagine di Diogene che se ne va in giro con una lanterna accesa in pieno giorno dicendo: “cerco un uomo” (ovvero l’uomo essenziale, libero da sovrastrutture e condizionamenti) cosa è se non stimolo all’indagine, filosofia in azione? In effetti l’impatto avuto dai “cani” sulla storia della pensiero antico fu tangibile, non solo sul già menzionato stoicismo, ma anche sulle altre grandi filosofie fiorite in epoca ellenistica, epicureismo e scetticismo.

La lezione del topo

Il “bastare a se stesso” di Diogene diventò un imperativo con il crollo delle poleis sancito dall’egemonia macedone: gli uomini perdevano la dimensione di cittadini per per trasformarsi in “semplici” individui. La vita diventa il problema e l’orizzonte del singolo. Le risposte del filosofo di Sinope arrivano non come riflessioni sul pensiero di uomini saggi, ma sulla scorta dei comportamenti di animali e dei bambini. Diogene “si era imbacuccato preparandosi a dormire in un angolo del mercato, profondamente scosso e turbato da cattivi pensieri, poiché senza che nessuno lo avesse costretto aveva intrapreso una vita difficile, di isolamento, mettendosi alle strette con le sue stesse mani poiché aveva rinunciato spontaneamente a ogni ricchezza. Fu in quel momento che, a quanto si dice, vide un topo arrampicarsi verso di lui e avventarsi sulle briciole cadute dalla sua pagnotta. Allora il suo spirito fu subito rinfrancato, e a mo’ di rimprovero rivolse a se stesso questa critica: “Che hai da dire, Diogene? Ecco che un topo si nutre con gioia dei tuoi avanzi, mentre tu, con la tua nobiltà di spirito, ti lamenti e rimpiangi di non poterti unire agli altri che si ubriacano sdraiati su morbidi tappeti”” (Plutarco, Quomodo quis suos in virtute sentiat profectus, 77e-78a). “Una volta vide un bambino che beveva nel cavo della mano. Allora prese dalla bisaccia la sua tazza e la buttò via dicendo: “Un bambino mi ha battuto in semplicità”. Gettò via anche la scodella quando vide un altro bambino che, avendo rotto la sua, mangiava le lenticchie nel cavo di un pezzo di pane” (DL, VI, 37). La filosofia, in fondo, è una cosa semplice.


Bibliografia essenziale

BRACHT BRANHAM Robert, GOULET-CAZÉ Marie-Odelie, The cynics: the cynic movement in antiquity and its legacy, University of California Press, Berkeley 1996.

CICERONE, De officiis, a cura di Rosa Maria Marchese e Giusto Picone, Einaudi, Milano 2019.

Diogene di Sinope, filosofia del cane, a cura di Andrea L. Carbone, :duepunti edizioni, Palermo 2010.

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DUDLEY Donald R., A History of Cynicism – From Diogenes to the 6th Century A.D., Methuen. London 1937.

NAVIA Luis E., Diogenes of Sinope, the man in the tub, Greenwood press, Westport 1998.

PLUTARCO, Tutti i Moralia, a cura di Emanuele Lelli e Giuliano Pisani, Bompiani, Milano 2017.

PLUTARCO, Vite parallele – Alessandro e Cesare, Rizzoli, Milano 1987.

SENECA, Sui benefici, Laterza, Milano 2019.

Socratis et socraticorum reliquiae, a cura di Gabriele Giannantoni, Bibliopolis, Napoli 1991.